«Trasmettere»: termine che deriva dal latino transmittere che, nell’ambito delle arti marziali tradizionali giapponesi si carica di specificità e complessità, in particolare quando si passi dal piano meramente teorico a quello pratico. Il termine va colto nella seguente accezione: “far passare qualcosa da una a un’altra persona o da un luogo all’altro o da un tempo a un altro”.
Prima di scoprire cosa s’intende con “qualcosa”, occorre chiedersi: cosa può significare “da un tempo all’altro”? Quando parliamo per esempio della trasmissione del Ninjutsu, facciamo riferimento a un’altra epoca, dalla quale recuperiamo le tecniche, i principi, gli esercizi e la filosofia ninja. Ciò presuppone uno studio in verticale, che rintracci esperienze idonee a essere recuperate e ripetute nel presente. E cosa significa “da un luogo all’altro”? Naturale presupporre differenze sociali, economiche e culturali fra Italia (o altri paesi) e Giappone, ove – come abbiamo già visto – il Ninjutsu è nato. Naturale anche pensare a un insegnamento della disciplina in contesti anche diversi dal Giappone; ciò presuppone uno studio in orizzontale, intento a promuovere le “specificità” del Ninjutsu in contesti abituati ad altre tradizioni marziali.
Con l’«In Shin Tonkei» si cercava il massimo risultato con il minimo sforzo, un concetto molto vicino al «Ninja Seishin Teki Kyoho» (o «raffinamento spirituale»). Nell’ambito dello Zen, c’è chi afferma che le tecniche stesse portano a un’elevazione dello spirito – in tal senso, la sublimazione della tecnica produrrebbe un effetto catartico; e c’è anche chi si attende un’elevazione spirituale/mentale attraverso rituali basati sul «buddhismo esoterico shingon» che inducono alla riattivazione di energie ormai sopite; si può attingere anche al sostrato archetipico che funziona da “area ponte” in grado di unire macro e microcosmo. Una visione più profonda del reale può dipendere dalla capacità di risvegliare reminiscenze e di servirsi di “conoscenze” intuitive. Importanti sono i concetti che riguardano il «Ninja Seishin, Butoku e Hasshodo», in quanto forgiano il carattere e inducono all’autoconsapevolezza interiore. In tal modo è possibile accedere a quell’«egregoro» nato dal rispetto e dall’aderenza ai concetti sopracitati, non per fede ma per coerenza.
Non intendiamo fissare, in tal modo, dei principi generali, validi universalmente. Al contrario, è ben noto che i processi di apprendimento seguono dinamiche spesso imprevedibili e incontrollabili. Lo stesso insegnamento, in se stesso libero (per quanto si faccia di tutto per astringerlo innaturalmente in gabbie burocratiche che ne riducano le potenzialità rendendone in sostanza inefficace l’azione), non può seguire criteri e precetti precostituiti ad hoc. Tuttavia, non si può pensare di improvvisare a tal punto da farne un libero procedimento che non segni alcuna via ai propri allievi[1]. Allo stesso modo non si può pretendere un esercizio forsennato, ai limiti della sopportazione umana, che non poggia più sul proposito di formare l’individuo, bensì sull’idea stessa di insegnamento, fine a se stesso, con il discente degradato a mezzo.
«Raccontano che in passato […], la via della maestria (geidō) esponeva i bambini a crudeli tirocini, paragonabili a veri e propri maltrattamenti. […] Tra i narratori gidayū e i suonatori di shamisen del jōruri, a Ōsaka, sono frequenti le storie di maestri che con il plettro colpiscono i discepoli alla testa fino a farli sanguinare o che li buttino giù a calci da un piano all’altro, facendo loro perdere i sensi. Si racconta che Dōhachi, del Bunrakuza, custodisca gelosamente ancora oggi il plettro con cui fu colpito Danpei. A pensarci bene, anche l’attore di kabuki, sin dall’infanzia, acquisisce la maestria (gei) attraverso un tirocinio di questo tipo, e in ciò risiede soprattutto la sua forza»[2].
Mah! Forse. Noi preferiremmo educare persone piuttosto che automi[3]. Krishnamurti ha parlato di «azione non-meccanica»[4], che si può riconoscere sia all’insegnamento in quanto tale, che si deve svolgere in forma “non meccanica”, cioè in forma, quanto più possibile, spontanea e naturale, sia al risultato cui mira l’insegnamento stesso, capace di sospingere il discente verso la libertà e la bontà. Eppure, ogni addestramento che abbia un senso richiede straordinario impegno e portentoso spirito di volontà. La storia di Eugen Herrigel, professore di filosofia ad Heidelberg, che si reca in Giappone per tenere dei corsi all’Università imperiale del Tohoku, che volendo approfittare dell’occasione del soggiorno ritiene di poter imparare in poche settimane lo Zen, ritrovandosi invece invischiato in un propedeutico interminabile apprendimento del tiro con l’arco, è davvero esemplare[5]. Imparerà, dopo più di sei anni (!), che il tiro si tira da sé: «un colpo – una vita».
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[1] Consigliamo a tal proposito la lettura di un valido testo che raccoglie le lettere di Jiddu Krishnamurti rivolte alle scuole (Lettere alle scuole, Ubaldini Editore, Roma 1983).
[2] Sulla maestria, cit., pp. 14-15. Il termine “gidayū”, forma abbreviata di “gidayūbushi”, indica lo stile di canto del bunraku – sviluppatosi a Ōsaka nell’epoca Tokugawa (1603- 1867), in cui i personaggi sono rappresentati da burattini di grandi dimensioni, manovrati da tre persone che appaiono sul palcoscenico completamente vestite di nero e a capo coperto, con l’eccezione di quella impegnata a muovere la testa e il braccio destro, che tiene invece il capo scoperto – iniziato da Takemoto Gidayū (1651-1714) su testi di Chikamatsu Monzaemon (1653-1724). Il termine “shamisen” indica uno strumento musicale a tre corde, la cui cassa è rivestita di pelle di gatto, e che si suona con un plettro di avorio. Associato tradizionalmente alla geisha, è percepito come uno dei simboli della cultura di Edo e dell’epoca Tokugawa. Il termine “jōruri” indaca la recitazione di testi dalla musica accompagnata dello shamisen. Tsuruzawa Dōhachi (1869-1944) iniziò a lavorare con Toyozawa Danpeo II sin dall’infanzia; nutriva per lui profonda ammirazione. Diventerà uno dei grandi maestri di arti tradizionali dell’epoca Shōwa. L’educazione degli attori cominciava per i bambini «sin dalla più tenera età [allorché venivano separati da genitori e] vivevano in un ambiente separato da quello dei bambini normali, crescevano in un mondo a parte, restio ai cambiamenti, un mondo che noi faticheremmo persino a immaginare. […] All’epoca i figli degli attori si riconoscevano per le fogge leziose, quasi femminili delle vesti, i berretti da cacciatore e le sciarpe di seta, la pipa in bocca e le pose studiate. Si esprimevano da adulti, con un linguaggio inadeguato alla loro età, addirittura spaventando noi altri che, per questo, ci comportavamo come se loro appartenessero a un’altra razza e li guardavamo dall’alto in basso, con disprezzo, quasi fossero apprendiste geisha. Da mattina a sera […] erano sottoposti a esercizi molto duri, che li rendevano sì padroni della tecnica, ma li inducevano a trascurare lo studio teorico, le conoscenze e l’educazione morale, il che favoriva una sorta di inevitabile ritardo nello sviluppo intellettuale e faceva sì che emergessero attori dalle indiscusse abilità drammatiche, ma incapaci persino di contare gli spiccioli che avevano in tasca. […] Sin dall’infanzia la loro pelle era avvolta in sete chirimen e habutae, le narici piene del profumo dolce del balletto, e la musica che raggiungeva il loro orecchio era quello dello shamisen e dello tsuzumi. Conversazioni sul teatro e chiacchiere di avventure sentimentali: questa era l’atmosfera che respiravano crescendo, ed era perciò inevitabile che la loro educazione intellettuale e spirituale risultasse poi inferiore alla media. Non di rado i caratteri della loro scrittura erano orribili, normali forse soltanto per un bambino al primo anno di scuola, ed essi non erano neanche in grado di mettere insieme un messaggio accettabile. Molti di loro, poi, non erano più istruiti di geisha, balie o massaie. E allora, pensando alla loro formazione, non dobbiamo forse riconoscere che è solo grazie alla maestria se questi attori riescono a interpretare in maniera ineccepibile opere così ricche di contenuti filosofici, tipicamente moderni, come i drammi sociali e le commedie di carattere? Quand’anche difettino di intelletto, una volta sul palcoscenico costoro si rivelano dotati di un istinto finissimo. Grazie a quest’ultimo sanno cogliere l’intento dell’autore: per loro la comprensione non si realizza nella mente. La via del teatro e le sue norme sembrano possedere qualcosa di universale, che trascende il tempo e lo spazio, e gli attori, avvezzi alle più diverse forme di espressione, tentano e ritentano sinché non giungano all’essenziale. Penetrano il contenuto dall’esterno» (ivi, pp. 20-22). «La “testa” è senz’altro importante, ma checché se ne dica è la “maestria” a contare più di tutto. È dalla “maestria” che si deve muovere, e non dalla comprensione “con la testa”, perché l’interpretazione con risulti illusoria» (ivi, p. 31). «Gli artisti di yose […] non appena compaiono in scena e prima ancora dei saluti, sanno già accattivarsi la simpatia del pubblico con la loro aria affabile. E il declamatore del jōruri è capace di mantenere la platea con il fiato sospeso anche soltanto stando in piedi davanti al leggio in attesa di cominciare. Così come l’immagine di un vecchio soldato reduce dal campo di battaglia evoca lo scintillio delle armi e il nitrito dei cavalli, il volto di un artista possiede una qualità unica in grado di far sorgere all’istante l’atmosfera di un teatro o di uno yose. […] io credo che la loro efficacia scenica sia il risultato di una lunga esperienza in fatto di spettacoli, poiché nello stesso contesto un dilettante, per quanto di bell’aspetto, apparirebbe sempre sgraziato e a disagio, mentre un uomo brutto che abbia percorso per diversi anni quella via entrerà perfettamente nella parte, occuperà il suo posto senza mai risultare ridicolo, pur nella sua bruttezza» (ivi, pp. 32-33). «Se, come dicono, il cinema mira solo a intrattenere per il tempo di una serata, allora non vi è nulla da eccepire, ma la maestria di un attore famoso, che abbia una lunga consuetudine con il palcoscenico teatrale, si imprime a fondo nella mente dello spettatore, anche quando questi lo vede sullo schermo, e le espressioni del volto e i gesti dell’attore gli lasceranno un ricordo duraturo, che si ripresenterà vivido anche quando la trama complessiva sarà stata ormai dimenticata. Questo è ciò che la mia lunga esperienza mi ha insegnato, e non so che cosa ne pensino gli altri, fatto sta che, nonostante abbia visto a tutt’oggi un numero infinito di film, della maggior parte non ricordo neanche il titolo, mentre di tanto in tanto mi si ripresentano alla memoria alcune immagini ben precise. E torno quindi a sorprendermi della potenza smisurata della maestria, poiché si tratta quasi sempre di scene in cui compaiono i grandi attori teatrali» (ivi, p. 35). Gli artisti occidentali non sono insensibili alla fama e alla ricchezza, e «non riescono a sacrificare queste ultime alla via della maestria al pari dei geinin [uomini d’arte della tradizione orientale], né si disinteressano del mondo quanto loro. Sono sempre attenti, tesi, svelti, sanno stare al passo con i tempi senza essere mai fuori moda, sono impeccabili e capaci di sostenere qualsiasi difficile dibattito pur di difendere le proprie posizioni. In una parola, sono smart. Gli uomini d’arte dei scuola orientale, invece, sono bel saldi e talvolta troppo onesti, al limite della stupidità, persone che non si spostano mai dal punto in cui sono arrivate, e che continuano a perfezionare la tecnica all’infinito. Ingenui come bambini e abili nella pratica, essi difettano della capacità teoretica e non sciorinano opinioni erudite sull’arte; si impegnano a fondo e sono provvisti di una grande umiltà, che talvolta li fa apparire persino sottomessi; non si scompongono di fronte alle critiche e non agiscono mai e poi mai alle provocazioni. Attori e musicisti occidentali sembrano volersi garantire su ogni fronte, man mano che cresce la loro notorietà. Essi si sforzano di mantenere le posizioni raggiunte e il favore del pubblico, e si direbbe che non abbassino mai la guardia: ecco perché è difficile affezionarsi a loro per davvero, mentre si avverte calore nel carattere vagamente sciocco dei geinin orientali, una tenerezza che ci avvicina alla loro arte e alla loro persona» (ivi, pp. 20-41). I termini chirimen e habutae indicano rispettivamente il crespo di seta diffusosi in Giappone a partire dal tardo XVI secolo, e un tipo di seta molto liscia e di gran pregio, utilizzata per confezionare i kimono. Il termine yose indica un tipo di sala nella quale si svolgono esibizioni di diverse arti tradizionali, generalmente declamatorie, quali il rakugo (storie comiche declamate da un solo narratore con l’ausilio di pochi e semplici oggetti, come per esempio il ventaglio, che a seconda dei casi possono simboleggiare strumenti musicali).
[3] Per un approfondimento del tema, suggeriamo la visione di un film di Chen Kaige, dal titolo Addio mia concubina, del 1993. La storia racconta di un bambino cinese, Douzi, figlio di una prostituta, che nei primi anni ’20, viene portato dalla madre nella scuola di recitazione dell’Opera di Pechino, diretta dal maestro Guan. L’addestramento è molto duro e severo, e Douzi è costretto a interpretare ruoli femminili. Riesce a dimostrare un gran talento nella recitazione e a conquistare una vana e poi persino pericolosa notorietà.
[4] Lettere alle scuole, cit., p. 11.
[5] «Mi avvisarono allora che un europeo non aveva alcuna probabilità di penetrare in quel campo, il più estraneo per lui, dello spirito nipponico – a meno che cominciasse coll’imparare una delle arti che hanno rapporto con lo Zen» (Lo Zen e il tiro con l’arco, cit., p. 30).