Partiamo da un brano di Loris Zanatta, comparso su «la Lettura» di domenica 8 luglio: “Il populismo è inclusivo: si ispira alla parabola evangelica dei pani e dei pesci e finisce in tal nome per riprodurre la povertà del popolo della quale si nutre. Ma per lo stesso motivo il populismo […] è così autoritario: perché la sua idea mitica di popolo non conosce il pluralismo; il suo mondo è binario: popolo e oligarchia, apocalissi e redenzione, bene e male; la guerra religiosa sostituisce la dialettica politica. È di sinistra? È di destra? No: è il tutto e il tutto aspira a essere” (p. 3).
Ci si riferisce qui al populismo di matrice latino-americana, al successo ottenuto da López Obrador in Messico. Ma l’idea è generalizzabile: una specie di tratto comune che identifica e marchia tutti quei movimenti politici (compreso il trumpismo, in America, e la Lega di Salvini, in Italia) che si rivolgono al popolo per conseguire miglioramenti di ordine economico, sociale e culturale. Sedicenti movimenti inclusivi, si dimostrano nei fatti elitari e selettivi.
Intanto, volgendo lo sguardo all’ultimo quarto del secolo XIX, notiamo che l’attività di propaganda svolta dagli intellettuali socialisti e rivoluzionari russi culminò, nel 1881, in un atto terroristico che produsse la morte dello zar Alessandro II[1], prefigurazione di ciò che poi avverrà nel 1917, prima che Vladimir Il′ič Lenin prendesse il potere sulle ceneri dello zarismo, consegnandolo, qualche anno dopo, al baffetto di Stalin.
Nel 1896 William J. Bryan arriva a un passo dall’elezione presidenziale statunitense; furono proprio gli operai, spaventati dal programma antimodernista di Bryan a votare William McKinley, l’avversario repubblicano, sostenuto anche dall’alta finanza e dai magnati delle ferrovie, dell’acciaio e del petrolio.
Si propugna un miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere, in particolare dei contadini e del proletariato urbano, un superamento dell’economia di mercato per spalancare la via al neo-capitalismo finanziario. Karl Marx stesso vedeva nell’immensa Russia il baluardo della rivoluzione, e non è un caso che Mao Tse-tung, sulla base di tali considerazioni, facesse leva sulle masse di contadini per realizzare il suo sogno di riforme radicali comuniste della società cinese, non già debellando quanto dislocando, a livello statale, ciò che rimaneva del nascente settore industriale. Mencio, già nel IV secolo a. C., affermava: «Il popolo occupa il primo posto, poi viene lo Stato e per ultimo il sovrano». Naturalmente, occorrerebbe non sottovalutare la presenza del sovrano nella triade. Ancor oggi, il leader attuale, Xi Jinping, come un tempo lo stesso Mao, è percepito come un imperatore che governa con pugno di ferro. Un sovrano che però non è riuscito a smantellare il sistema delle caste, a moralizzare le istituzioni del Paese, a scardinare il sistema della corruzione in seno a quella classe politica e burocratica che ha sin dai tempi di Confucio spadroneggiato in lungo e in largo nell’impero che un tempo ospitò Marco Polo e che ora è il maggior produttore di inquinamento nel mondo, uccidendo in media 4.000 cinesi al giorno.
Non dovrebbe sorprendere questa vicinanza, tanto programmatica quanto ideologica, tra socialismo e populismo. Il connubio dialettico di hegeliana memoria, che abbatte la pluralità nel mentre si dichiara a favore della collettività, diviene l’arma prediletta dall’élite per salvaguardare il proprio potere e mantenere lo status quo dei privilegi acquisiti in secoli e secoli di supremazia. Il popolo, apparentemente fruitore di riforme sociali che dovrebbero avvantaggiarne le condizioni di vita, si ritrova immischiato in una guerra non sua.
Rievocando il contratto sociale di J. J. Rousseau e il concetto stesso di «volonté générale[2]», si può cogliere in modo assai efficace il nesso stringente tra egualitarismo e populismo. Ma è guardando alle esperienze totalitarie del Novecento che dovrebbe scattare se non altro il dubbio: ma il popolo, in tutto ciò, che ci guadagna? Se miglioramenti ci sono stati, e di certo ci sono stati, non sono avvenuti dal “basso”, ma grazie alla saggezza di alcuni pensatori e statisti che, collaborando strenuamente, non hanno inteso sfruttare il popolo per conseguire consensi ma lavorare per esso. Le grandi conquiste sociali sono avvenute così, per opera della ragione e non a partire dalle “passioni” della plebe e dall’impulso della plebaglia. Perché plebaglia diventa quel popolo incapace di comprendere le manipolazioni cui è sottoposto. Nel secondo Dopoguerra, in Argentina, sarà J.D. Perón a reclamare l’intervento delle masse popolari per spodestare le forze avversarie e imporsi a guida del Paese, con l’appoggio dei ceti medio-alto-borghesi[3]. L’idea di abbattere il capitalismo (e con esso sia la miseria sia le sovrastrutture interdipendenti) è solo il paravento per illudere le masse. Il capitalismo, semmai, si rafforza, e si globalizza.
In sostanza, il populismo è una filosofia rivoluzionaria d’ispirazione socialista, che flirta con l’anarchismo e con il nazionalismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori positivi e aspira a un modello di civiltà non pluralista.
Affinché il popolo divenga strumento rivoluzionario dev’essere Uno e Unico, compatto e possente, come la sfera parmenidea che tutto esclude, non essendoci altro oltre sé stessa, come il dio monoteistico che non accetta il diverso da sé, come la monade leibniziana, che arriva a sdoganare l’immobilismo della Sostanza neoplatonica, come il plotone militare che avanzi nei campi di battaglia senza mai sfaldarsi.
Facile arguire che si è in presenza della riproposizione di un vecchio modello di politica e di Stato: quello nazional-socialista d’ispirazione platonica. E non è un caso che gli immigrati (nell’ampia articolazione di rifugiati, apolidi, profughi), cioè le forze più deboli ed emarginate del capitalismo globale, finiscano per essere il capro espiatorio per rafforzare il Potere di chi governa il mondo, per essere gli esclusi da tutto e tutti. Troppo scontato, a questo punto, menzionare Donald Trump, il “businessman rivoluzionario che intende riportare l’America agli anni ruggenti che precedettero la crisi del 1929, quelli del capitalismo rampante che si impose […] con la Prima guerra mondiale”[4]. La sua è un’America bianca e pura, che non può fornire più ospitalità a gente proveniente dall’Altrove. Questa gente minaccia l’ordine costituito, le minoranze incedono a passo incalzante e inquinano l’unità razziale di chi si crede superiore. “Trump si fa, in questo modo, specchio delle ansie profonde di un Paese che non riesce a trovare un ruolo nel mondo multipolare e multiculturale; ma il suo ideale non è un Paese liberaldemocratico e il suo populismo e di risulta. La sua è un’America tradizionalista e vetero-capitalista.” (ibidem)
Populismo come fallacia monistica, dunque. Come ennesima grande fiaccolata per la guerra.
Ma se la pluralità si realizza nell’opposizione all’Uno, e la democrazia nell’opposizione alla demagogia, ci si dovrà porre la domanda: che tipo di opposizione caldeggia un pensatore plurale? Un’opposizione dialettica che si compie nell’agone politico di uno spazio pubblico? No. Il Parlamento non è e non dovrebbe essere il luogo dello scontro partitico, del confronto serrato tra posizioni diverse e avverse. Gli opposti, in tal modo, si equivalgono e si identificano per forza e intensità. Si pensi, tanto per fare un esempio, al linguaggio salviniano, apparentemente schietto e preciso, invero manchevole e qualunquista, al quale si contrapponga la lingua altrettanto biforcuta degli ultimi renziani. È come se a giocar la partita fossero i due portieri che si passassero la palla da una parte all’altra del campo, senza che i giocatori potessero averla tra i piedi e cimentarsi in qualche giocata sopraffine. Il bel calcio sarebbe nel mezzo, ma gli spettatori sono costretti a dirigere lo sguardo altalenante sugli estremi.
Il termine “confronto”, spesso utilizzato nell’accezione positiva, possiede una semantica incerta e ambivalente. Da un lato indica l’atto e il fatto del confrontare, in senso comparativo, dall’altro la discussione tra due o più persone al fine di stabilire quale sia la verità. Nel diritto penale, il termine indica l’atto processuale del contraddittorio fra imputati e fra testimoni, diretto a stabilire la verità fra dichiarazioni contrastanti già rese dalle persone medesime. Nel linguaggio sportivo indica la gara, ed è sinonimo di competizione tra atleti o squadre. Ovvio che una gara, per quanto bello sia parteciparvi, non può concludersi con un nulla di fatto. Qualcuno dovrà pur vincere. Ma è indispensabile che il perdente accetti la sconfitta e si predisponga con animo sereno a una prossima occasione. Se non vi fosse possibilità di “rivincita” per lo sconfitto e necessità di “difendere” il titolo per il vincente, lo sport perderebbe il suo fascino.
In ambito politico, per confronto s’intende l’incontro polemico fra sostenitori di tesi, concezioni e programmi diversi. In fase pre-elettorale un confronto non può essere fine a sé stesso: deve mettere in luce una diversità di posizioni, al fine di consentire all’elettore di scegliere. Lo spettatore incerto, che si trovasse dinanzi a un esponente di destra che la pensi esattamente come l’altro di sinistra, non consentendo di cogliere differenze di vedute su un argomento, finirebbe per disertare le urne e andarsene in montagna a meditare. Spesso il confronto decade in affronto, con l’unico scopo di demolire e demonizzare l’avversario e stravincere le elezioni. Chi le vince, di solito, prosegue indefesso la campagna elettorale; non si limita a esultare per la vittoria ottenuta, prima di mettersi al lavoro per il bene di tutti ma, senza un briciolo di pudore, chino sulla scrivania si getta a architettare strategie per conservare la poltrona, e dedica tutto il tempo a rafforzare il suo potere per impedire ai nemici politici e ai loro sostenitori di riprenderselo.
Se il clima politico fosse sempre quello elettorale, non si avrebbe mai pace: gli animi sarebbero perennemente incandescenti, pronti per divampare da un momento all’altro. Così, il confronto diviene fonte di conflitti.
Nella misura in cui si sia capaci di rinunciare al confronto per retrocedere sul piano del raffronto, l’animosità lascerà spazio alla comprensione; allora sì che la disputa diverrà realmente “gara” e dialogo aperto e sincero.
Si potrebbe allora pensare che il vero problema siano proprio le elezioni e quindi il principio fondante del parlamentarismo moderno. In un certo senso è così: più si mira a salvaguardare il principio dell’alternanza, più ci si espone al mantenimento di uno stato di natura ove tutti, in lotta con tutti, arriverebbero alle mani per una manciata di voti in più.
Che vita è questa? Che democrazia?
Purtroppo, la vita reale riserva sempre meno momenti di raffronto sincero e costruttivo, e sempre più occasioni di contesa; si pensi ai social network, che hanno assunto la configurazione di un agone politico in perenne interminabile fase pre-elettorale, dove non ci sono voti ma Like.
Una filosofia della pluralità, nel difendere lo spazio plurale delle possibilità, non può lasciarsi lusingare dalle tradizionali forme di pluralismo partitico. Essa si pone oltre la divisione partitica; non per eliminare idee e raffronti… come avviene nelle dittature, ma, al contrario, per far sì che ogni idea, ogni esigenza, ogni istanza, possa avere ricevere ascolto. In fondo, basterebbe capire che ogni individuo è un partito a sé; una ricchezza da valorizzare, non da ottenebrare. E se anche si avvertisse, com’è logico e naturale che sia, il desiderio di condivisione, ben venga la condivisione, purché non divenga motivo di esclusione e di chiusura. La pluralità si pone oltre ogni forma di settarismo, noismo, integralismo. La pluralità persegue l’ideale di una comunicazione non-violenta.
Ma torniamo al concetto di “opposizione”. Se l’opposizione in forma agonistica e sportiva si trasforma, miracolosamente, in fonte di piacere e di divertimento, nella misura in cui le regole del gioco vengano rigorosamente rispettate e non vi siano colpi bassi, e soprattutto che la gara s’inserisca in un contesto aperto di riscatto e rivincita, l’opposizione politica di tipo elettorale non arreca alcuna reale e duratura soddisfazione per chi vota. Se i politici riuscissero a farsi promotori di chiarezza, se riuscissero a spiegare ai cittadini quali e quanti sono i problemi e come risolverli, i cittadini non si scontrerebbero tra loro, infiammati dai leader partitici. Vivrebbero la contrapposizione unicamente nella propria mente. Si tratta, questo, di un principio basilare della filosofia plurale: la dialettica oppositiva – in forma di contrapposizione, giustapposizione e confronto – va ricondotta nell’alveo del pensiero individuale, a una sorta di “dialogo interiore”, affinché gli individui agiscano in piena libertà, secondo le idee che di volta in volta s’impongono nella loro mente, che sortiscano più intensamente il richiamo, che assumano per loro l’importanza maggiore, anche per l’intervento di qualche forza straordinaria del cosmo.
Perché, d’altronde, i grandi maestri non accettano mai confronti? Forse per sottrarsi alle critiche? Ma no… saprebbero come farvi fronte. Il problema è più complesso. Un maestro non ha bisogno di entrare in conflitto verbale con qualcuno per aver ragione. Egli è interessato a un cammino di tipo spirituale, a un’evoluzione interiore; e non a imporre le proprie idee a qualcuno, benché, in quanto maestro, avverta la necessità di insegnare. E non è neppure interessato a dar ragione a qualcun altro. Perché mai rafforzare l’Ego degli altri?
Egli vive in simbiosi con il cosmo plurale e diveniente. E non c’è gioia più immensa!
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[1] Alessandro II fu investito dall’esplosione di una bomba lanciata da Ignatij Grinevickij. Costui rimase ucciso. Gli altri autori del complotto furono arrestati pochi giorni dopo.
[2] La volontà dei cittadini organizzati e associati come corpo comune; si tratta perciò di una forma di decisione collettiva, ben distinta dal semplice convergere delle iniziative individuali; lo scopo, quello di aver cura delle esigenze e delle problematiche generali e dello stesso bene pubblico. Per Rousseau le leggi devono essere deliberate da tutto il popolo: le decisioni legislative non sottopongono i cittadini a coercizione, perché sono i cittadini stessi a darsi legge.
[3] Il peronismo è un movimento politico-sociale promosso e diretto da Juan Domingo Perón (1895-1974), presidente argentino dal 1946 al 1955 e poi nuovamente dal 1973 fino alla morte: con l’appoggio dell’esercito e dei sindacati operai, perseguì una linea politica da lui stesso denominata giustizialismo, caratterizzata all’interno del paese dall’adozione di provvedimenti assistenzialistici ispirati a un demagogico populismo e da un’esasperata incentivazione della produttività finalizzata all’autarchia economica, cui faceva riscontro, in politica estera, una netta professione di nazionalismo e di equidistanza dai blocchi capitalista e comunista.
[4] Tiziano Bonazzi, «la Lettura», cit., p. 3.