Empedocle: misteri e magia nella filosofia antica

1. «Nella storia del pensiero occidentale Empedocle, per quanto ne sappiamo, è il primo ad aver specificamente ridotto tutto ciò che esiste a quattro elementi fondamentali»[1]. Cioè, acqua, aria, terra e fuoco – «che si relazionano attraverso philia e neikos: il continuo, incessante aggregarsi e disgregarsi delle radici costituisce tutto l’esistente. La combinazione fra quelle radici originarie (già individuate dai predecessori di Empedocle, ad esclusione della terra, aggiunta per la prima volta da quest’ultimo) è il punto nodale della risposta di Empedocle al problema dell’arche, ovvero dell’uno-molti: dalle radici-unità il processo relazionale giunge ai molti, cioè alla molteplicità delle cose semplici e complesse, attraverso la scissione-moltiplicazione delle radici in particelle componenti quelle determinate unità complesse che sono le ‘cose’, e poi da queste allo Sfero (Uno-Tutto)»[2].

Quello di Empedocle è un poema cosmologico che si serve del linguaggio simbolico per sondare la natura e dar ragione delle cose, che gli appaiono nella loro forma diveniente. Ogni parola rimanda a uno spazio articolato di significati, «risultando naturalmente plurima e talvolta contraddittoria in quanto radicata nel tutto, uno e molteplice. Questo spazio contiene in sé la memoria della radice della parola, dalla quale si diramano i diversi significati che ad essa, e fra loro, restano vincolati: una tale pluralità sottintende una potenza creativa della parola, nella tensione fra significati acquisiti e significati possibili»[3]. Si tratterà di andare oltre la doxa, oltre la superficie dell’esperienza sensibile, pur sempre, però, attraverso la via esperienziale che conduce a superare ogni forma di monismo concettuale. Forse, Empedocle cerca una filosofia della pluralità attraverso il congegno di un linguaggio plurale, che si spinga tuttavia oltre la descrizione delle forme reali del cosmo, per coglierne l’intima essenza come effetto di forze straordinarie (e perciò stesso divine) del kosmos. È consapevole, il Siciliota, che il linguaggio del limite perde in precisione, ma acquista spessore in capacità rievocative. La parola assume il compito di evocare sensazioni che affondano le loro radici «in un sentire intuitivo, cioè in quel guardare della mente che è l’esperienza conoscitiva fondante il discorso filosofico. Questa relazione è particolarmente evidente […] perché l’uso poetico-filosofico del linguaggio è denso di intuizione e insieme di concettualità, oltre che di vitalità in quanto in grado di restituire in maniera già critica l’esperienza da cui nasce il pensiero e di condurla verso l’’astrazione»[4]. Empedocle tiene insieme lo spazio dell’osservazione e quello dell’immaginazione. Ma non vuole parlare di ciò che (semplicemente) osserva. Non è interessato alle descrizioni. Vuole capirne il meccanismo di fondo. La trama regolativa del cosmo. Gli sembra infine di averla colta nell’essenza plurale del cosmo – certo con riferimento alle quattro radici, ma non sono tanto le radici in sé che hanno un valore costitutivo quanto la loro mescolanza, da cui, infinite forme.

«Osserva con ogni mezzo come si fa vedere ciascuna cosa: [… non certo] accordando fiducia a qualche visione»[5], ma attraverso il puro e semplice pensiero – non quello strutturato e ormai intrappolato in categorie che fungono da paraocchi, bensì quello leggero e ancora plasmabile dell’infante. Si potrebbe persino arguire: un pensiero privo di linguaggio, un pensiero non-pensiero, ricolmo di meraviglia e passione. È così che Platone può annoverare Empedocle tra i rappresentanti della filosofia poetica – a cui, alla fin fine, lui stesso aderirà. Empedocle ha avuto il coraggio di far coesistere uno e molti, mentre Parmenide non se l’era sentita di confondere i due piani e aveva posto a fondamento del tutto l’Essere che è Uno e non-molti. «In Empedocle, nel suo pensiero come nella sua raffigurazione, il connubio tra mondo mitico-simbolico e logos, tra poesia e speculazione, risulta la cifra del suo essere. La poesia non contraddice né ostacola il pensiero filosofico ma può esserne espressione profonda: se nella tradizione occidentale il linguaggio filosofico è stato generalmente quello delle grandi risposte, il linguaggio poetico e narrativo – esplorando zone di confine non restituibili solo razionalmente – è stato e può essere tuttora quello delle domande»[6]. È possibile che il progetto empedocleo miri alla coesistenza di due mondi, quello materiale e quello spirituale, quello delle forme reali e quello delle forze – ordinarie (se non intaccano più di tanto gli equilibri della natura e dell’esperienza) e straordinarie (se incidono in modo strutturale) – tutto sommato anch’esse reali, benché di natura eminentemente trascendente. Non sarebbe allora neppure corretto rinvenire in Empedocle una caratteristica – per esempio il suo essere scienziato, oppure il suo essere mistico, o mago – sulle altre. Empedocle cerca di farsi cassa di risonanza di una pluralità di figure, ed è filosofo non meno di poeta, mistico non meno di scienziato, poeta non meno di medico. D’altronde, un grave errore sarebbe ricondurre l’opera e la biografia empedoclea all’unicum, qualunque esso sia, anche se quello (peraltro molto battuto dalla critica) di un Empedocle poetico, mistico e mago.

2. Tuttavia, come rileva Kingsley, proprio perché non esiste un unico Empedocle, proprio perché il suo pensiero affonda le sue radici in un contesto ampio e articolato, si può rintracciare nella sua orbita di pensiero il pitagorismo antico. Se non lo si riconoscesse si finirebbe per sostenere un’apertura nel mentre si chiude, di fatto, ogni prospettiva di agganci e interconnessioni. Ora, si vuole qui gettare una luce sul «sostrato letterario, mitologico e geografico che sta al di sotto delle presunte idee “filosofiche”»[7]. In questione, sempre secondo Kinglsey, sarebbe il portentoso frammento 111 (che Diels, nella sua pur magistrale raccolta di frammenti presocratici, non esitò a spostarlo verso la fine, ritenendolo incompatibile con quel riferimento complessivamente scientifico che credeva di aver scorto nel pensiero empedocleo; mentre, a detta di Kingsley, andrebbe riportato in auge, tra i primi frammenti, non tanto per non relegarlo ai margini, quanto per dargli il giusto spessore come fonte interpretativa principale dell’intero poema). Non dello stesso parere è la Montevecchi, la quale si dichiara propensa a collocare Empedocle su uno spazio plurale di riferimenti e di sfondi teoretici. Meglio, a questo punto, fornire del frammento la duplice traduzione, la prima offerta dallo stesso Kingsley[8], la seconda della Montevecchi[9].

I rimedi quanti sono dei mali e della vecchiaia la difesa saprai, perché per te solo io compio tutte queste cose. Placherai dei venti infaticabili la forza, quali sulla terra alzandosi distruggono con le folate i campi; e di nuovo, se lo desideri, benefici soffi provocherai: susciterai dalla pioggia scura opportuna secchezza per gli uomini e susciterai dalla secchezza estiva correnti che nutrono gli alberi e nell’etere abiteranno, condurrai dall’Ade la forza di un uomo morto.

Quanti sono i rimedi dei mali e la difesa della vecchiaia 
apprenderai, giacché per te solo io compirò tutto questo.
Farai cessare l’impeto dei venti infaticabili, che sulla terra 
sollevandosi, con i loro soffi devastano i campi; 
e poi di nuovo, se lo vuoi, benefici soffi susciterai, 
da nera procella farai sortire opportuna siccità 
per gli uomini, e farai sortire dalla siccità estiva 
piogge che nutrono gli alberi e che nell’etere scorreranno 
e trarrai dall’Ade la forza di un uomo morto.

Ora, secondo Kingsley, «è del tutto evidente che ogni tentativo di negare al frammento il suo significato ovvio e letterale è sbagliato»[10]. In altre parole, risulterebbe inequivocabile il fatto che Empedocle dichiari di possedere la capacità taumaturgica di liberare uomini e donne dalle sofferenze mortali. C’è da dire che Gorgia, suo allievo, testimoniò di aver assistito personalmente a certi «incantamenti»[11]. Ed è probabile che Empedocle davvero si sia cimentato in prodigi che lo avvicinano di molto a uno sciamano. Per “incantamenti” si può intendere non già solo la predisposizione di sostanze estratte dalle piante, ma veri e propri riti magici idonei a trasmettere al pharmakon un (ulteriore) potere terapeutico. Si tenga conto, inoltre, che una “difesa della vecchiaia” non poteva che apparire scandalosa nel contesto della religione tradizionale greca, secondo cui solo gli dèi erano in grado di sfuggire ai dolori della vecchiaia che precedono la morte. E ancor più inaudita doveva apparire la discesa nell’Ade per riportare in vita un uomo morto. «È vero che Orfeo sembrerebbe aver avuto in origine il potere di richiamare i morti in vita; ma l’influenza della moralità greca fece sì che il suo successo venisse poi cancellato e convertito nella tragica storia di un fallimento»[12]. Non sarebbe peraltro corretto «separare il tracio Orfeo dalla tradizione sciamanica dell’Asia centrale»[13]. Gli antichi greci non erano immuni alle influenze esterne; lo scambio e la commistione culturale costituisce una prassi pressoché generalizzata, motore stesso della civiltà, in ogni luogo e in ogni tempo. Se ne può discutere l’entità, se abbia influito di più il locale o il globale, specie per alcuni popoli – e per i greci stessi, custodi della loro cultura e della loro patria – ma non se ne può del tutto ignorare la valenza, essendo la struttura plurale e diveniente del cosmo – con le sue forme culturali – un dato di fatto non confutabile[14].  Nello zoroastrismo persiano era abbastanza diffuso il mito della discesa negli inferi; lo era anche in Egitto e nel già menzionato mondo sciamanico nordasiatico.

L’azione empedoclea, quale effetto di forze straordinarie, poteva quindi risuonare come essa stessa divina; lui stesso, nel frammento, pare, rivendichi per se stesso dei poteri straordinari[15]; e non è da escludere che l’insieme delle leggende che avvolgono la sua biografia – si pensi solo alla morte, avvenuta, si narra, per suicidio compiuto lanciandosi nell’Etna[16] – sia da intendersi come un vero e proprio tentativo di divinizzazione di un personaggio al di fuori del comune. Si diceva, per esempio, che Empedocle fosse «in grado di controllare il vento e la pioggia»[17]; si trattava – se il termine “controllare” è preso alla lettera – di poteri che la tradizione attribuiva a Zeus, padre degli dèi. La folgore era uno dei simboli più importanti del dio del tuono e del cielo. D’altro canto, se il controllo che esercitava Empedocle sul clima è semplicemente meteorologia e previsioni del tempo, il discorso cambia, di molto. Se controllare il vento e la pioggia erano prerogative di un dio, com’è stato possibile estenderli anche a Empedocle? A questo lo stesso Kingsley pare non ponga grossa attenzione. È vero, persisteva già (pure piuttosto diffusamente, nella Magna Grecia in cui Empedocle viveva), un certo filone di origine orfico-pitagorica, a sua volta derivante dal mondo egizio come dall’Oriente; siamo nell’ambito della magia, però, non della religione. L’uso della magia – da intendersi in un duplice senso: come capacità 1. di interferire sul corso degli eventi, 2. di predire il futuro[18] – si affermava, sullo sfondo della nascente filosofia naturalistica e dei primi passi mossi dalla scienza[19], come audace e decisa alternativa alla visione religiosa tradizionale. «Secondo la tradizione gli dèi, pur presentandosi con lineamenti e comportamenti umani, hanno una diversa natura, estranea e inaccessibile sia all’uomo sia anche ai semidèi che, pur essendo nati dall’unione di una divinità con un mortale, sono soggetti al medesimo destino mortale dell’uomo»[20]. L’idea di un confine invalicabile tra gli dèi e gli uomini non soddisfa più, e il politeismo antropomorfico, nella versione cantata da Esiodo e da Omero, entra decisamente in crisi, dapprima per via delle concezioni orfiche e orfico-pitagoriche, poi per opera degli Ionici, degli stessi Eleati e infine di Empedocle. Si osserva un’inequivocabile istanza al rinnovamento, sospinta da un’indomita propensione dell’uomo – comunque già avvertita nei poemi omerici – a sfidare gli dèi, alimentata, a sua volta, dalle esigenze della conoscenza umana e del pensiero, a un certo punto più consapevole di se stesso e ormai pronto a scalare la vetta della pluralità. Allora, si progetta, con le armi della logica, dell’osservazione e della conoscenza, la liberazione dalle pastoie degli assoluti e dalle imposizioni della classe sacerdotale. La critica demolitrice di Senofane si pone, nell’ordine di una tale interpretazione, su questa scia “sovversiva”. E si potrebbe persino considerare l’Uno – o lo Sfero – parmenideo la risultanza di una forma mentis nuova, aperta ad uno sguardo più oculato del cosmo e della natura. La molteplicità politeistica però non sembra di fatto possedere il carattere della molteplicità: il politeismo greco – come d’altronde quello egizio – non si lascia descrivere quale insieme di elementi distinti e autonomi tra loro, ma si configura molto chiaramente all’insegna della compattezza e dell’unitarietà, cioè secondo i caratteri essenziali dell’Uno[21]. Si obietterà: non è vero! Gli dèi confliggono spesso, così come fanno gli uomini. Gli dèi non sono molto diversi dagli uomini, in questo senso. Ma il rilievo non coglie nel segno. Per nulla. Polemos – come insegna Eraclito di Efeso – è parte integrante del cosmo e quindi di ogni sua parte e forma, e quindi anche di ogni sistema – reale o ideale – di forme coesistenti. Ad ogni modo, non è questo il problema di fondo. Interessa qui mettere in luce il senso della triade scienza-magia-filosofia, che costituisce e istituisce una reale e straordinaria soluzione alternativa all’Uno e ai Molti (ciò che dovette rappresentare per Empedocle un grande impulso per un concreto rinnovamento del suo Paese. Non dimentichiamo che Empedocle si era fermamente opposto alla tirannide, al potere dispotico di uno solo).Con una tale interpretazione non si trova d’accordo, come già detto, la Montevecchi; pur riconoscendo il sostrato mitologico/taumaturgico che sorregge la figura e l’opera del Siciliota, la studiosa delinea un quadro storico molto ampio e articolato, che non acconsente cedimenti all’Empedoklès magos e deus. «La capacità di Empedocle di affrontare i problemi più disparati non gli viene da poteri misteriosi o paranormali, ma dallo studio approfondito dei fenomeni naturali e fisici: a dargli la possibilità di leggere e comprendere in profondità sono dunque il sapere e la conoscenza. Le sue parole esprimono la consapevolezza di una diversità riconosciuta, ma non compresa, dall’intera cittadinanza, che lo ritiene un essere divino o comunque un individuo dotato di poteri non umani. Questa incomprensione è propria della maggior parte degli ephemeroi, le creature di un giorno, incapaci, anche perché esposte al dolore e all’oppressione degli eventi, di lungimiranza, di uno sguardo che sappia legare la parte con il tutto, il presente con il futuro “a quello soltanto accordando fiducia in cui ciascuno si è imbattuto / dappertutto sospinti – e <il tutto> si vantano di aver trovato»[22].

Non si può neppure sostenere, secondo la Montevecchi, che Empedocle sia capace di «liberare miracolosamente gli uomini dal dolore»[23]. Egli, più che mago, è medico, in particolare, occupandosi di dietetica – «meschini, del tutto meschini, dalle fave le mani tenete lontane»[24]. Diversi sono i precetti, molti i suggerimenti. Appare plausibile che tutto sia scaturito «dall’osservazione empirica»[25], per cui che l’etica è «intrecciata con l’aspetto mistico-religioso e inscindibile dal discorso filosofico-speculativo»[26]. Ma nel complesso, l’uomo non è immune dal dolore e dalla sofferenza. È comunque, in certa misura, in grado di ridimensionare la sofferenza inserendosi «in un orizzonte di senso, in un ordine che si riflette concretamente in stili di vita regolati, rispettosi cioè di norme comportamentali precise»[27]. E se neikos progetta la disorganizzazione di ogni cosa, philia tende a ritrovare l’armonia. L’uomo deve quindi seguire le tracce di philia; solo così può giungere la purificazione: «stante l’inesorabilità del ciclo cosmico, a ciascuno è data comunque la possibilità di scegliere se subire passivamente tale inesorabilità o farsene soggetti attivi, condizione preliminare perché il racconto empedocleo delle peregrinazioni dei daimones possa essere compreso come esperienza»[28].

Si mette inoltre in luce la distanza tra la concezione orfica della metempsicosi con la metensomatosi di Empedocle: se nella prima si delinea una «netta distinzione tra psyche e soma […] nella prospettiva di Empedocle invece non è lo stesso uomo che rinasce individualmente, ma si tratta della successiva rigenerazione degli elementi, sempre gli stessi, in corpi sempre diversi: dell’ulteriore ricomporsi delle radici»[29]. Successivamente, «almeno a partire dal V secolo a. C., con il fiorire della scienza ionica e delle scuole mediche della Magna Grecia, psyche viene a designare l’insieme delle funzioni mentali caratterizzanti la vita individuale quali il sentire, il pensare, il desiderare, non scisse dalla corporeità e con essa destinate alla morte»[30]. Gli orfici e i pitagorici intendevano l’anima come sostrato corporeo, separabile dal corpo stesso, proveniente, invero, da una dimensione non terrena, capace di saltare da un soma all’altro, in quanto che ne è sostanzialmente indipendente, per poi, infine, ricongiungersi con l’anima universale e divina[31]. Empedocle fa sua la tradizione orfico-pitagorica, ma da una prospettiva del tutto nuova: non c’è anima trascendente. Si può affermare che l’anima, per Empedocle, riguarda il carattere o addirittura l’identità di una persona. Allora, il frammento 117 – «già una volta io sono stato fanciullo e fanciulla / e arbusto e uccello e muto pesce che salta fuori dal mare»[32] – va efficacemente interpretato a favore di una «continuità non dell’io psichico-individuale, ma della divina eternità del tutto della quale egli è parte consapevole: consapevolezza che permette di assumere punti di vista differenti senza affezionarsi ad un solo “io”»[33]. Il daimon empedocleo non ha nulla di metafisico. È «composto vivente esiliato dall’Uno»[34]. «In quanto schegge di divinità che vivono il mondo dell’essere-divenire, i daimones hanno uno statuto particolare e non possono essere identificati con gli dèi perché, come tutte le individualità, sono composti dalle radici eterne ma, a differenza di queste, essi sono tutt’uno con le loro forme esistenziali e quindi transitorie, anche se possiedono una lunga vita»[35]. Si sancisce così il principio – ripreso dall’asse Socrate-Platone – del perfezionamento morale (da intendersi come progressiva diminuzione di azioni negative e malvage); peraltro, Empedocle ammette il retrocedere, come determinato dalla scelta inesorabilmente sbagliata. Ammette tuttavia, anche se ciò può sembrare paradossale, la morale, intesa come riduzione di colpa. «Essendo agitati per gravi cattiverie / mai da angosce tormentose solleverete lo thymos»[36]. Sa essere anche severo, tuttavia: «Non vi accorgete / che l’un l’altro vi divorate per il torpore della mente?»[37].


[1] P. Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, tr. it. M. Bonazzi, il Saggiatore, Milano 2007, p. 25.

[2] Empedocle d’Agrigento, cit., p. 25.

[3] Ivi, p. 28.

[4] Ivi, p. 31.

[5] 3DK, ivi, p. 111.

[6] Ivi, pp. 35-36.

[7] Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, cit., p. 213.

[8] La traduzione italiana è del già citato Mauro Bonazzi, ivi, p. 214.

[9] Empedocle d’Agrigento, cit., p. 145.

[10] Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, cit., p. 215.

[11] Ivi, p. 216.

[12] Ivi, p. 222.

[13] Ibidem.

[14] Rammentiamo: confutare la struttura plurale e diveniente del cosmo significa presupporre, sia pure inconsapevolmente, uno spazio plurale per la discussione…

[15] È Kingsley che si spinge ad affermare che Empedocle «si considerava divino» (ivi, p. 227).

[16] Il krater è il simbolo e la metafora degli inferi. Gettarsi nel krater costituiva una sorta di culto: ci si getta nella bocca del vulcano e si scende nell’Ade per poi risalire (ascendere) verso il cielo conquistando l’immortalità (propria degli dèi). Che sia stato attribuito a Empedocle questo rito d’iniziazione simbolica la dice lunga sul fatto che lo si considerasse una divinità a tutti gli effetti (senza che in verità lo sia o che lui stesso realmente lo abbia pensato, dovendo però prescindere dalla letteralità del frammento 111 in cui sembra proprio che Empedocle si credesse una divinità). Secondo una lettura più pacata, l’immortalità è l’aspirazione di ogni singolo, «da intendersi come comunione con la vita eterna della physis e, di conseguenza, come riconoscimento della propria parte divina» (Empedocle d’Agrigento, cit., p. 90). Un divino non da intendersi in senso trascendente e monoteistico, quanto in senso eminentemente naturale, che poi è già un superamento del politeismo tradizionale antropomorfo.

[17] Ivi, p. 219. Da segnalare, poi, quanto riporta Diodoro Siculo sui Telchini «i leggendari fabbri capaci di creare nuvole, tempeste di pioggia, grandine e neve» (ibidem).

[18] Si può compiere magia anche attraverso la parola, che per Empedocle è cosa viva, reale, fluente, vibrante. Egli è consapevole della limitatezza del linguaggio, eppure rinviene un’eccezionale potenzialità nella parola. Al suo discepolo, il solo ad ascoltarlo, Pausania, Empedocle insegnava un certo uso della parola, che poi, in definitiva, significa un certo uso del pensiero: quello in grado di produrre cambiamenti. Può il pensiero trasformare il mondo? Empedocle credeva di sì, ma non nel senso banale di produrre la rottura di un tronco fissandolo con gli occhi o far piovere recitando una poesia. Anzitutto, dice Empedocle al suo discepolo: «poiché qui ti sei ritirato, / apprenderai» (2DK, Empedocle d’Agrigento, cit., p. 109). L’esortazione alla lontananza non indica certo disprezzo cinico e isolamento. È piuttosto la normale esigenza di un ritiro spirituale, ove si possa trovare la calma per riflettere. Ma d’altronde, in generale, «il distanziarsi permette di vedere l’insieme, di circondarlo con il pensiero e paradossalmente di essere prossimi a ciò che si vuole capire, perché prima di fermarsi sui particolari è necessario vedere il perimetro che li contiene e li raccorda» (ivi, p. 50). Chiaro che con l’avvento della sofistica e della retorica, il linguaggio entra a far parte dell’ordine del discorso, per dirla con Gorgia (che fu allievo di Empedocle). Allora esso si ritrova piegato alle esigenze del momento, affievolito anche dalle opinioni degli uomini e da una dimensione relativistica del sapere. A cui cercherà di porre rimedio la fervente critica di Platone al mondo sensibile della doxa, senza tuttavia riuscire a invertire il corso degli eventi: al tempo di Pericle, l’epoca della lingua sacra dell’aedo era sostanzialmente conclusa. Cominciava quella della teoresi astratta, intenzionalmente distante dalla realtà concreta proprio perché credeva di potersi e doversi affrancare dalla mentalità pragmatica e utilitaristica del sofista, consapevole, tuttavia, di non poter recuperare le origini mitiche della parola empedoclea.

[19] Il fisico Carlo Rovelli – grande studioso della gravità quantistica – fa risalire la nascita delle scienze ad Anassimandro (610/609-547/546 a. C.), allorché, abbandonando i miti asiatici, si profila l’idea che la Terra sia un sasso gigantesco che galleggia nello spazio. Cfr. Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano 2014.

[20] Empedocle d’Agrigento, cit., p. 94

[21] I monoteismi rispetto ai politeismi restringono l’ambito dell’Uno, dalla compattezza dei Molti alla compattezza di una sola forma divina, innalzata a Unicum.

[22] Empedocle d’Agrigento, cit., p. 13. Ma anche: «Quanto sia debole la consapevolezza della nostra paternità logica, e quindi la capacità di assumerla criticamente, lo si vede facilmente in quelle interpretazioni cosiddette scientifico-razionali che, cercando di tutelarsi dall’accusa di un possibile esito ‘irrazionale’, considerano minori alcuni aspetti del pensiero di Empedocle, come di altri pensatori cosiddetti presocratici, e li forzano a una supremazia ritenuta ‘razionale’. Ma lo stesso problema, in maniera opposta, è altrettanto presente in quelle letture che privilegiano invece l’aspetto ritenuto genericamente mistico e ad esso tentano di ridurre un’intera esperienza speculativa. In entrambi i casi ad agire è uno schema mentale nutrito di contrapposizioni, di esclusioni, e incapace di cogliere la struttura circolare e polare di alcune forme di pensiero, di misurarsi con l’esistenza di una logica altra» (ibidem).

[23] Ivi, p. 93.

[24] 141DK, ivi, p. 155.

[25] Ivi, p. 104.

[26] Ivi, p. 105.

[27] Ivi, p. 93.

[28] Ivi, p. 94.

[29] Ivi, p. 96.

[30] Ibidem.

[31] Gli orfici distinguevano un ciclo delle anime animali e uno dei corpi umani. I pitagorici sostenevano invece che l’anima di un uomo può finire in un animale e l’anima dell’animale può reincarnarsi nel corpo umano.

[32] Ivi, p. 149.

[33] Ivi, p. 97.

[34] Ibidem.

[35] Ivi, pp. 98-99.

[36] 145DK, ivi, p. 155.

[37] 136DK, ivi, p. 153.

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