Non rimanere chiusi nei propri schemi mentali

Passeggiava per le vie di Cremona il sikh, avvolto nella sua tunica bianca, con un bel turbante e con il suo pugnale, il kirpan. Entra in un centro commerciale, ignaro di tutto, ma viene fermato dalle forze dell’ordine. Si giustifica adducendo il fatto che il suo kirpan è solo un simbolo religioso. L’episodio finisce in Tribunale. Comincia la trafila di tortuose procedure volte alla chiarificazione: giunge un certificato del Consolato generale dell’India, che conferma che per i sikh il kirpan è simbolo della resistenza al male e che deve essere sempre portato in modo visibile. Il Tribunale di Cremona infine assolve l’indiano dal reato di porto ingiustificato di armi od oggetti atti ad offendere (art. 4 l. 18 aprile 1975 n. 110) per avere portato con sé fuori dalla propria abitazione un pugnale kirpan della lunghezza complessiva di 17 cm (di cui 10 di lama), calzato in un fodero.
Avrebbero dovuto sapere le forze dell’ordine che il kirpan è un simbolo religioso? Certo, avrebbero potuto saperlo, se si fossero informati; ma il sikh sapeva che il possesso di un’arma costituisce reato? Certo, avrebbe dovuto saperlo; e forse lo sapeva. Il fatto è che per lui il kirpan non è affatto un’arma. Il porto di quel pugnale costituisce, secondo il Tribunale di Cremona, un segno distintivo di adesione a una regola religiosa e, quindi, una modalità di espressione della fede stessa, garantita dall’art. 19 della Costituzione e da diversi atti internazionali. Il motivo religioso del porto del pugnale kirpan è considerato un “giustificato motivo” tale da escludere la configurabilità del reato ascritto.
La spada costituisce un’arma simbolica, cerimoniale, come indica il suo nome: il termine punjabi kirpan deriva dalle parole kirpa e aan, che significano rispettivamente “atto di bontà”, “benevolenza”, “favore”, “compassione”, e anche “onore”, “dignità”, “rispetto” verso gli altri e per sé stessi. È anche chiamato “mano pietosa”, capace di sussumere le qualità succitate, e con esse l’obbligo al coraggio di uno spirito forte, libero e assertivo, che ha solenne diritto all’autodifesa.
Il sikh deve sacrificarsi per difendere il bene, la verità, la giustizia, e i suoi valori morali lo inducono a lottare contro l’oppressione e l’ingiustizia nel mondo. Guru Gobind Singh diede licenza di usare la spada unicamente per proteggere i deboli e gli oppressi. Perciò, il kirpan è un’arma difensiva (in opposizione al talwar che è il nome dato alle armi da offesa), uno strumento di ahimsa, non-violenza, da utilizzarsi più come deterrente che come effettivo strumento di difesa e di prevenzione. Nello Zafarnama, il santo raccomanda ad Aurangzeb che solo quando tutti gli altri sforzi di riconciliazione falliscono, è giusto impugnare la spada. Già al tempo del sesto profeta Gur Har Gobind, nel XVII secolo, il kirpan seguiva tali modalità di uso. Se ne portavano due, indicanti il potere temporale e spirituale. Har Gobind si era opposto alle forze Moghul, di fede islamica. Ogni sikh, nel suo modo di vedere, doveva essere un sant-sipahi, un santo-soldato, che mentre vive nella contemplazione di Dio, affronta le mondane responsabilità sociali con l’ardore e l’ardimento del guerriero. Eppure, anche durante quel periodo di guerre era proibito ai sikh qualunque atto di violenza offensiva[1].
Sul tema della flessibilità, la letteratura scientifica è sterminata. Converrebbe consultare perlomeno l’agile e recente libro di Leonard Mlodinow, Il pensiero flessibile, per farsi un’idea generale. Ad ogni modo, non è possibile, in questa sede, approfondirne i contenuti; ma è utile accennare ad alcuni elementi di psicologia cognitiva, all’interdipendenza fondamentale che sussiste tra elaborazioni cognitive, reazioni fisiologiche, emozioni e comportamenti. «Le modalità con cui interagiamo – siano esse assertive, passive e aggressive – sono determinate in gran misura dal nostro modo di interpretare la realtà, dal nostro modo di pensare, dalle nostre opinioni, idee, aspettative»[2].
Se penso che una parola è detta per offendermi, reagirò con rabbia. Ma la domanda è: come mai mi è sembrato che lui abbia voluto offendermi? A che scopo? Come mai possedevo un’aspettativa così negativa? Forse, lui lo ha già fatto altre volte; allora, perché rispondergli?
Pensare assertivamente significa avere uno sguardo assertivo su sé stessi, sugli altri e sulle relazioni. Occorre saper riconoscere e gestire «i pensieri disfunzionali in sé e negli altri»[3]. Per farlo occorre prendere in considerazione il fatto che ognuno di noi sviluppa una serie di credenze e convinzioni non funzionali al proprio benessere e al raggiungimento dei propri scopi[4]. Pensieri poco realistici, eppure decisivi nel farci agire in un certo modo invece che in un altro magari più conveniente. Si tratta di un «filtro interpretativo della realtà»[5], basato su pensieri, concetti e idee che impediscono alla realtà di manifestarsi per ciò che è. «Le principali caratteristiche disfunzionali o irrazionali di queste forme di pensiero sono l’assolutismo, il dogmatismo, il catastrofismo, l’insopportabilità, l’accusa, la colpa e la condanna»[6]. Le persone tendono a mantenere e confermare certe idee, adottando delle strategie di salvaguardia, spesso inconsapevoli. Allora, pensare in termini di devo/dovrei (ciò che caratterizza un pensiero dogmatico), finisce per guidare ogni azione senza sapervisi opporre e a trasformare l’abitudine in vera e propria psicopatologia, tanto più in quanto, a causa della “doverizzazione”, non si riesce mai a trarre piacere in ciò che si fa.
L’approccio terapeutico tende dapprima all’identificazione del pensiero disfunzionale, per poi operare un lavoro di “ristrutturazione cognitiva”, capace di far “cambiare idea”. Tuttavia, è bene partire dalla considerazione che ogni pensiero presupponga un riferimento neuronale pressoché stabile; e perciò, il cambiare idea non è da intendersi come sostituzione di un’idea con un’altra, bensì come 1. ampliamento di pensieri e 2. ampliamento qualitativo del modo di pensare. Cambiare idea significa allora “costringerla” a rapportarsi ad altre idee, le quali, per via dell’opposizione o della somiglianza, riescano a neutralizzare l’effetto monostico dell’altra. C’è da dire, comunque, che l’approccio cognitivo classico prevede sia l’ampliamento come descritto qui sia l’eliminazione dell’idea. Cioè, esso punto anche alla soppressione dell’idea ritenuta negativa. Tuttavia, rimane da chiarire come sia possibile eludere ciò che in biologia è chiamata “traccia mnestica”[7] di un cervello che, pur essendo plastico, è deputato naturalmente a conservare il dato originario di tutto ciò che assimila. L’approccio che invece si propone qui è tutto incentrato sull’ampliamento cognitivo.
E se l’approccio classico si avvale di tre modalità terapeutiche:
1. realismo, facendo in modo che i pensieri aderiscano alla realtà;
2. utilità, facendo in modo che non nuocciano al benessere psicofisico della persona;
3. stimolo, volto al raggiungimento di uno scopo e della soluzione di un problema – l’approccio alternativo, ma nel senso di ampliativo esso stesso, prevede un intervento specifico per neutralizzare il pensiero riconosciuto come causa di dis-funzionalità. Si pensi anche alle cd “distorsioni cognitive” (quelle che riguardano errori logici del pensiero, che sono alla base di comportamenti passivi o aggressivi). Non si tratta di eccezioni, purtroppo. Senza rendercene conto, ogni giorno adottiamo comportamenti che solo a posteriori – nel migliore dei casi – scopriamo essere del tutto privi di logica. «A volte sono utili, soprattutto perché ci fanno risparmiare tempo; molte volte però ci fanno stare peggio, portandoci ad interpretazioni degli eventi frettolose, parziali, scorrette e a conseguenti emozioni negative»[8]. Se bastasse far rendere conto alla persona di essere incappato in errore di logica, avremmo risolto. Tuttavia, a parte la viscerale resistenza ad accettare di aver commesso un errore, non può essere sufficiente un corso di logica o di calcolo probabilistico. D’altronde, «non abbiamo risorse mentali infinite, ad esempio non possiamo potenziare la nostra attenzione a piacere, non possiamo eliminare gli errori di valutazione. Tutto ciò è noto»[9]. Quando decidiamo qualcosa, lo facciamo, «per lo più, sulla base dei sentimenti»[10], e il ragionamento è spesso solo «un modo per argomentare le tesi a sostegno delle scelte compiute e per allontanare i dubbi»[11].
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[1] Nella mentalità dei sikh è certamente presente uno spirito marziale, che viene loro costantemente ricordato dal kirpan stesso; ma l’umanitarismo che pervade questa religione, spinge i suoi adepti ad un costante impegno etico, che si esprima attraverso un sentimento guerriero. Nel capitolo I del Vachitra Natak, si canta in modo aulico e accorato: «o spada, o conquistatore di continenti, o vincitore delle legioni del male, ornamento dei coraggiosi sul campo di battaglia. Le tue braccia sono indistruttibili, la tua luce rifulgente, la tua gloria e il tuo splendore abbagliano come il sole. O Felicità del santo, o distruttore degli intenti malvagi, o soggiogatore del peccato, io cerco in te rifugio». Già Guru Nanak apparteneva agli kshatriya (letteralmente “i protettori”), la casta guerriera dell’India, ma i suoi insegnamenti amorevoli subirono una svolta militaresca soltanto con Gobind Singh. A lui dobbiamo il comandamento di portare sempre il kirpan, il suo inserimento nelle cinque K e l’istituzione, nel 1699, del rito battesimale sikh, dove emerge di nuovo l’importanza di questo strumento: la cerimonia si chiama khanda di pahul, “battesimo della spada”, e la miscela di acqua e zucchero che l’iniziando berrà da una tazza d’acciaio viene mescolata proprio con un kirpan. A quel tempo non era un problema portare infilato in cintura un kirpan di grandi dimensioni, una sciabola vera e propria. In epoca moderna, chiaramente non è più così. E i sikh hanno dovuto affrontare diatribe spesso sfociate nel consorzio legale. Anche qui non hanno smentito la loro fierezza, perorando infaticabilmente la supposta prerogativa culturale di indossare queste lame. La più grande causa del genere si verificò dopo che l’Indian Arms Act del 1878 proibì di indossare armi, pena la galera, a chiunque non detenesse un permesso governativo speciale. I sikh reagirono con la grande campagna “Kirpan morcha” del 1921-22, durante la quale seguitarono ad accompagnarsi con le loro sciabole sacre e i loro capi seguitarono a guidare manifestazioni pubbliche. Era il periodo della riforma Gurdwara (1920-25), e la questione del kirpan ormai chiamava in causa l’assetto politico. Il governo inglese, che aveva annesso il Punjab all’India nel 1849, arrestò migliaia di sikh colti in possesso dell’oggetto; le fabbriche come quella di Bhera e Sialkot dedite alla sua produzione furono assalite e chiuse, sequestrato ogni kirpan più lungo di 9 pollici (22,86 centimetri). Le vittime di questa repressione furono definite “Kirpan Bahadur”, “Eroi del kirpan”, e alla loro resistenza Seva Singh dedicò nel 1922 un settimanale dallo stesso titolo. Riguardo all’esercito britannico, c’erano stati precedenti segnali di concessione, quando al tempo della Prima Guerra Mondiale esso temeva di disincentivare l’arruolamento dei sikh se avesse applicato una proibizione del kirpan troppo severa. In seguito, però, neppure i soldati sikh furono risparmiati, e molti finirono alla corte marziale per la detenzione delle sacre lame. Alla fine i sikh l’ebbero vinta: sempre nel 1922 il governo del Punjab acconsentì a negoziati con la commissione Shiromani Gurwara Parbandhak, grazie ai quali fu concesso di portare il kirpan, ma di estrarlo soltanto pe la preghiera (arda), il battesimo e le processioni. Non fu vittoria da poco, se tuttora in India l’articolo 25 della Costituzione dà ai sikh licenza di portare la spada ovunque, eccetto sugli aerei e all’assemblea legislativa. Il fatto che il Reth Maryada non specifichi né le dimensioni, né la foggia, né il punto del corpo su cui indossare il kirpan è oggi un vantaggio per i sikh, dal momento che la gran parte dei Paesi non gli consentirebbe di aggirarsi con una spada. Così, quelle a forma di daga o addirittura di sciabola compaiono solo nelle feste religiose, come il matrimoni. Oppure nella gatka (letteralmente “bastone”, ma viene inteso anche come “estasi”), l’arte marziale dei sikh di ogni sesso ed età che viene fatta risalire sempre a Guru Gobind Singh. Qui si imprime nelle armi un moto circolare ininterrotto con ampie giravolte del corpo, grazie al quale intorno al praticante si crea una sfera protettiva ed è più facile combattere diversi aggressori. Nella gatka si usano i kirpan più grossi, vere e proprio sciabole di novanta centimetri. Ma quelli indossati nella vita quotidiana, per lo più sotto gli abiti, sono più piccoli, fatti di ferro o acciaio dolce, affilati o meno. Le misure comuni vanno dai 15 ai 23 centimetri, che in occidente si riducono spesso a 7,5 o 9. Con accorgimenti simili, in Belgio, Svezia, Canada, e Gran Bretagna, i kirpan sono consentiti per motivi religiosi o perché annoverati tra i coltelli innocui. Negli Stati Uniti ci sono state diverse cause legali, ma poi la questione è stata risolta con gli accorgimenti opportuni. Rimane nota la dichiarazione del giudice J. Painter dopo che il 31 dicembre 1996 terminò la causa dello stato dell’Ohio contro il dottor Harjinder Singh: “la religione sikh appartiene alla storia del mondo del XV secolo. Parte di questa religione sono le ‘cinque K’ indossate dai suoi membri. Essere un sikh significa indossare un kirpan – è così semplice. Si tratta di un simbolo religioso, e in nessun caso di un’arma”. La spada insomma è stata ed è tuttora un simbolo importante per la vita religiosa di un sikh; e incarna, con gli altri kakar, valori etici che, se rispettati veramente e non rinnegati per interessi terreni, sono degni di essere rispettati da chiunque.
[2] F. Gamba e F. Baggio, Aspetti cognitivi dell’assertività, in AA. VV. Assertività e training assertivo. Teoria e pratica per migliorare le capacità relazionali dei pazienti, a cura di F. Baggio, Franco Angeli, Milano 2013, p. 31.
[3] Ibidem.
[4] Per una disamina del concetto di convinzione, legato a razionalità, cfr. F. Gil, La logica della convinzione, tr. it. C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Milano 2004.
[5] Aspetti cognitivi dell’assertività, cit., p. 32.
[6] Ibidem.
[7] Per esempio, è provato che l’apprendimento di una lingua “madre”, durante il “periodo critico” dell’infanzia, si sedimenta nel cervello. Un gruppo di ricercatori ha studiato bambini cinesi adottati all’età di circa un anno e che per anni non sono mai stati esposti alla lingua madre, privi quindi di ricordi coscienti. Attraverso indagini funzionali, hanno osservato come si attiva il cervello all’ascolto di caratteristiche linguistiche tipiche del cinese. In questa lingua una variazione del tono determina una variazione del significato, richiedendo quindi al cervello di attivare quelle aree deputate non solo all’ascolto bensì anche alla comprensione linguistica, specialmente confinate nel lobo sinistro. Per una persona che non conosce il cinese, non vedremmo alcuna attivazione, ma il risultato sorprendente e che anche dopo molti anni e dopo aver perso la conoscenza della lingua, i bambini presi in esame mostravano ancora segnali di risposta simili a quelli per la lingua madre, suggerendo che ciò che si forma nei primi mesi, permane nel tempo anche in assenza di stimolazione.
[8] Ivi, p. 40.
[9] M. Franchi e A. Schianchi, L’intelligenza delle formiche. Scelte interconnesse, Diabasis, Parma 2014, p. 14.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.