Il pensiero plurale strategico

Per azione strategica s’intende quella posta in essere per il raggiungimento di uno scopo determinato. La parola ‘strategia’ deriva dal gr. στρατηγία (lat. strategĭa) «comando dell’esercito; carica di stratego; arte militare», der. di στρατηγός (stratego), che indicava la massima carica dell’esercito greco (come Generale)[1]. Mentre la tattica pianifica la singola azione, soprattutto con riferimento ai suoi contenuti pratici, la strategia si confà a un insieme di operazioni propedeutiche coordinate in vista di un obiettivo di lungo periodo. È sul piano della strategia che si definisce se una battaglia debba essere intrapresa oppure no. Decidere di combattere è per sua natura una scelta fondamentale, dal carattere apparentemente non-plurale. Ma, qualche volta, necessario.
Come impedire che un’azione strategica subisca gli effetti dell’irreversibilità? Anzi, è davvero strategica una decisione che non contempli la possibilità di un ripristino delle condizioni iniziali? Qui, ovviamente, non si sta considerando un ritorno al passato. Tutto muta. E ogni scelta (o non scelta) produce le sue conseguenze irreversibili. Se però una decisione induce alla perdita delle conseguenze, di modo che queste si riproducano senza più poter intervenire, semmai lasciando che la sola tattica intervenga a gestire il flusso consequenziale degli eventi, non si è più nel quadro dell’azione strategico-plurale. Una scelta ampiamente meditata sarà quindi il presupposto da cui partire per rimanere nel suo ambito. Cambiare tattica non è difficile, ma reimpostare una strategia, e quindi ridefinire gli obiettivi di sistema, può voler dire riorganizzare tutta la struttura degli armamenti e degli organigrammi. E se a livello aziendale il successo è «quasi sempre frutto di un mix di scelte tattiche, progettazione razionale e fortuna»[2] e solo parzialmente «di una pianificazione basata su stime e previsioni»[3], molto dipendendo da una possente capacità di promuovere e gestire il cambiamento[4], quando si passa all’ambito delle operazioni militari è la medit-azione strategico-plurale ad assumere un ruolo preponderante. Ma anche qui, il cambiamento non è semplicemente un dettaglio di cui tener conto; è piuttosto l’essenza di ogni azione, la quale sempre si muove in uno spazio in divenire ed è essa stessa diveniente. Ciò implica la strutturazione di un pensiero plurimo, che si avvalga di tutte le sue capacità, individuate già in sede introduttiva/panoramica, nelle otto forme reali delle sue potenzialità: progettante, predittivo, creativo, logico, operativo, esplorativo, meditativo e strategico.
Allora, contemplare una ritirata e vie di fuga non risponde solo ai principi della strategia militare classica; è quanto di più connaturale a una filosofia del pensiero plurale che addestri a mente e il corpo a pensare compatibilmente all’essenza plurale e diveniente del cosmo. Parimenti, il non combattere induce a una situazione di attesa strategica che a sua volta deve poggiare su una meditazione plurale di ciò che potrebbe nel frattempo succedere. Ogni azione deve essere compiuta non solo contemplando la possibilità di un ripristino delle condizioni di partenza, ma anche l’impossibilità stessa di ritrovare le stesse condizioni di prima. Tutto muta, e nulla si riproduce nello stesso e identico modo. La reversibilità dell’azione va intesa come non eccessivo discostamento/allontanamento dalla condizione di partenza, secondo un criterio di analogia. Ci si prefigge un obiettivo, si stabilisce un punto zero, che fa da pendant alla decisione stessa, che è plurale nella misura in cui si oscilla tra l’avanzamento e l’indietreggiamento, stando attenti a non compiere falsi passi, che impedirebbero aggiustamenti successivi. Avanzare senza predisporre vie di fuga e senza contemplare la possibilità e l’opportunità di un indietreggiamento è monismo strategico. Nel campo militare, come nel marketing e nella diplomazia, si tende a compiere scelte strategiche capaci di limitare i danni possibili. Non ha molto senso partire dal possesso di un’immaginaria onnisciente visione del cosmo. In un contesto di razionalità limitata, la pluralità del pensiero non è mai la pluralità della totalità. Presupporre la disponibilità di una forza interiore all’insegna di altrettanta fantomatica unitarietà cosmica significa peccare di tracotanza, eccesso, superbia, orgoglio e prevaricazione.
Nell’ambito della Teoria dei Giochi, non si parla di strategia, al singolare, ma di piano di azione strategico per indicare una proficua combinazione di strategie; all’interno di esso se ne sceglie una. La scelta non sarà comunque compiuta in forza dell’immutabilità strategica, ma per effetto della considerazione probabilistica di quali condizioni si produrranno per la scelta strategica. Sicché, questa è per sua natura flessibile e plurale.
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[1] Con Temistocle gli strateghi assunsero il controllo anche della marina. Se ne contavano dieci, uno per ogni tribù, eletti ogni anno. Erano tutti sullo stesso piano; infatti, nella battaglia di Maratona scelsero per votazione il miglior piano di battaglia da adottare. La tendenza, in epoca democratica, era quella di selezionare gli ufficiali tra il popolo, purché avessero esperienza in guerra, anche con riferimento ai rapporti diplomatici. Di fatto, erano le classi alte ad ottenere la carica, peraltro altamente remunerativa, grazie ai bottini di guerra, parte dei quali gli erano per legge riservati. Durante il V secolo, lo strategos comincia ad avere un ruolo sempre più importante, influenzando le stesse scelte politiche della città. L’esempio più famoso è quello di Pericle, il quale, per circa un decennio, tenne strettamente in pugno le redini del governo di Atene, da far dire allo storico Tucidide che sotto Pericle ad Atene si era instaurato un regime monarchico. È da notare che Pericle poteva, però, essere esautorato dal suo incarico semplicemente con il voto dell’assemblea cittadina. Durante il IV secolo, invece, il ruolo degli strategos si ridimensiona, a causa del frequente ricordo a milizie mercenarie, in un contesto in cui le finanze ateniesi scarseggiavano e una schiera di nuovi politici diventò sempre più preminente. Nello stesso tempo, gli ufficiali sono sottoposti a diversi processi per il loro operato, con pene molto gravose (come la confisca di tutti i beni). Tragicamente noto è l’episodio della battaglia delle Arginuse nel 406 a.C., allorché tutti gli otto generali in comando furono processati e condannati a morte per non essere riusciti a recuperare i sopravvissuti.
[2] J. Kay, La lepre e la tartaruga. Guida informale alla strategia d’impresa, introduzione di A. La Bella, tr. it. A. Marchesi, Francesco Brioschi editore, Milano 2007, p. 10.
[3] Ivi, p. 11. «La strategia si forma a partire dalle scelte che le aziende compiono quotidianamente, spesso anche in modo istintivo o reattivo rispetto alle circostanze specifiche del momento» (ivi, p. 11). Ciò non significa che un’azienda intenda la strategia come sommatoria di successi tattici o che sia il caso a determinare l’affermazione o meno di un prodotto e di una marca. Le aziende non si presentano al mercato prive di strategie di business. Tuttavia, «il vantaggio competitivo appartiene, almeno dal punto di vista statistico, alle imprese che riescono ad acquisire e sviluppare risorse distintive [cioè, conoscenze, competenze e capacità che i competitori non possiedono e che sono anche molto difficili da replicare], e a fare un buon matching tra queste, le proprie attività e l’ambiente esterno» (ibidem). Di fatto, le strategie non cambiano di anno in anno, e si preferisce reiterare processi di pianificazione già adottati, come se fossero rituali; di fatto, alcuni fenomeni emergono del tutto imprevedibilmente (chi aveva previsto che due studenti di dottorato fondano un’impresa che in pochi anni si afferma sul mercato internazionale come una delle più grandi aziende di tutti i tempi – ovverossia, la Google). «La sfida della complessità è divenuta oggi molto pressante a causa della convergenza tra diverse tendenze: la globalizzazione; la dinamica accelerata dei fenomeni sociali, economici e di mercato; le discontinuità tecnologiche, determinate non solo dai veloci avanzamenti nell’elettronica, nell’informatica, nelle scienze della vita, nelle nanotecnologie, ma anche e soprattutto dalla loro integrazione. Tutto ciò promette sorprese di cui è impossibile prevedere la portata e che potrebbero condurre all’emergere di nuove industrie e, anche, alla scomparsa di settori esistenti» (ivi, p. 13). Occorrerebbe «riconoscere onestamente che il processo di pianificazione strategica ha seri problemi a confrontarsi con la complessità e l’incertezza, con tendenze instabili che peraltro manifestano effetti cumulativi. Il processo di pianificazione strategica dovrebbe allora assumere nuovo significato: un momento atteso da tutti per capire meglio il business; per forgiare le menti ad affrontare scenari incerti; per accrescere le capacità di cambiare, di reagire in modo proattivo agli eventi, di tenere l’organizzazione desta e reattiva. Soprattutto, individuare, potenziare ed eventualmente acquisire e sviluppare capacità distintive. Un esempio vincente è offerto dalla strategia della Sony, che non si preoccupa di definire l’insieme della azioni da realizzare in un arco di tempo programmato ma, come illustrato chiaramente dal suo leggendario fondatore, Akio Morita, consiste in una linea guida che fa leva sulle proprie risorse distintive: le capacità di mantenere un flusso continuo di prodotti innovativi e, contemporaneamente, di sviluppare un insieme complementare di competenze e abilità in grado di assicurarne una pronta accettazione da parte dei consumatori» (ivi, p. 14). Non si tratta di agire semplicemente sul piano delle economie di scala, per impedire che i concorrenti possano riprodurre quanto realizzato – si pensi al caso della Boeing Company, divenuta, per l’evidente difficoltà di riprodurne l’attività, la più grande azienda nel settore aerospaziale, per molto tempo monopolista, eppure oggi alle prese con la concorrenza della Airbus – ma di essere imprese altamente in divenire. L’idea è quella di inventare e perfezionare nuovi prodotti e di creare una domanda per essi attraverso campagne di comunicazione e di educazione dei clienti, in forza di ciò che si definisce “immaginazione strategica” (vale a dire quel «processo tramite il quale un individuo o un gruppo trasforma segnali deboli in componenti significativi di una mappa, anche parziale, della realtà, del futuro e dei modi per modificarlo» (ivi, p. 19), tutto all’insegna di una vincente filosofia del pensiero plurale.
[4] S’immagini la finale di una regata. Supponiamo che al via una delle barche commetta un errore, perdendo qualche decina di secondi preziosi. La domanda è: chi sta avanti dovrà pensare ad amministrare il vantaggio o cercare di aumentarlo ottimizzando la prestazione? Di solito, il leader copia le mosse del follower, anche quando queste appaiano rischiose ed errate; ovviamente, si tratta di comprenderne il senso. In tal modo, ogni mossa, intenzionale o no, è interpretata come intenzionale. A dover rischiare per riguadagnare metri è il follower, non il leader. Il follower, peraltro, sa che la tattica dell’imitazione posta in essere dall’altro è quanto di più prevedibile. Allora, una contromossa potrà essere l’adozione di tattiche del tutto imprevedibili e inspiegabili, di modo che s’inneschi un corto circuito e il tentativo di imitazione fallisca. In altre parole, la vittoria dipende dalle scelte altrui e dal modo con cui le si interpretano. Serve una capacità di osservazione, aggiustamento e manovra. A poco serve «anticipare il futuro, né è sufficiente aver costruito una solida posizione di mercato» (ivi, p. 21). Solo se si sa cambiare velocemente e senza che altri riescano a comprendere il movimento stesso, si vincerà. Sarà un caso se «delle 100 maggiori imprese esistenti nel 1917, solo 18 continuavano a esistere 70 anni dopo» (ivi, p. 22)? «Una caratteristica comune a tutte le strutture organizzative è la tendenza all’omeostasi, ovvero alla creazione spontanea di routine, meccanismi e atteggiamenti autoregolanti in grado di contrastare i cambiamenti e di mantenere un elevato livello di stabilità interna anche al variare delle condizioni esterne. L’omeostasi è una utile difesa dell’integrità aziendale, in periodi di forte turbolenza, in quanto evita risposte iper-reattive con brusche correzioni tattiche che a lungo andare possono essere disgreganti ostacolando il consolidarsi di una cultura condivisa e lo sviluppo di comportamenti e competenze sufficientemente profonde. Diventa però patologica quando genera paura di cambiare e reazioni negative rispetto a qualunque ipotesi o progetto di cambiamento; in tali casi costituisce forse il principale fattore che influenza negativamente le prestazioni. Purtroppo, è difficile riconoscere e contrastare tale fattore, che spesso si manifesta in modo subdolo. Basta pensare a quante volte tutti abbiamo sentito esaltare il concetto di equilibrio e le sue virtù, quasi che uno stato del genere fosse fondamentale in natura. Si tratta invece di una palese distorsione della verità: lo stato di natura più comune è il disequilibrio. L’equilibrio è una trappola. La storia naturale ci insegna che tutte le specie che raggiungono uno stato di equilibrio prima o poi si estinguono, mentre sopravvivono quelle che sanno adattarsi ai cambiamenti. La natura stessa, ogni tanto, genera eventi che spingono il sistema fuori dell’equilibrio. La storia ci insegna che la stessa cosa avviene per le civiltà: quelle che conseguono un equilibrio in senso lato, sia sul piano tecnico-economico che rispetto all’ambiente e alle risorse, finiscono con l’essere soppiantate da culture più dinamiche. La teoria e l’esperienza confermano che le organizzazioni migliori sono quelle che riescono a mantenersi in uno stato di disequilibrio controllato. Senza la tensione del cambiamento prevalgono le rivalità e le gelosie interne, si formano e consolidano gruppi contrapposti, prevale la logica del noi contro di loro. Il cambiamento, se ben gestito, aiuta a proiettare le migliori energie verso obiettivi più ambiziosi e a far crescere le competenze. Nella maggior parte dei casi, però, questo non succede, e le organizzazioni finiscono con il soffrire i cambiamenti, più che trarne vantaggio: i comportamenti peggiorano, si deteriorano le relazioni esterne, lo stress rende l’ambiente di lavoro oppressivo e poco piacevole. A volte ciò dipende dal fatto che la vera motivazione del cambiamento non è di natura strategica, ma costituisce una risposta impropria a problemi strutturali interni. Invece di affrontare con serietà e impegno i problemi che esistono in qualunque struttura organizzata con uno sforzo di progettazione competente, qualche volta si procede a un impulso generale di riforma nella speranza che il sistema si assesti da solo su un nuovo e migliore equilibrio (con una probabilità di successo prossima allo zero). Molto più spesso la ragione del fallimento nella “manovra” consiste però in valutazioni e scelte errate e soprattutto nell’incapacità di gestire il processo di cambiamento. Occorre allora riflettere sulle strategie aziendali o, meglio, sul modo in cui esse vengono formulate oltre che sulle tecniche e i processi utilizzati, per valutare quanto queste tengano conto del ruolo dell’impresa come soggetto in continua evoluzione; e, in questo contesto, quanto il clima aziendale sia in grado di tenere insieme le persone nel lungo periodo, motivarle, farle sentire parte di una missione importante, risolvere gli inevitabili conflitti. La capacità di cambiare e di governare con efficacia il processo è una risorsa distintiva. Essa si crea infatti con fatica e in tempi lunghi, richiede il concorso di tutte le componenti aziendali, si riferisce ai comportamenti individuali e collettivi e quindi riguarda il capitale sociale dell’organizzazione. Assume forme estremamente originali, individuali e caratterizzanti, e ha una natura prevalentemente tacita; una volta sviluppata diventa parte del patrimonio genetico dell’organizzazione, ed è perciò estremamente difficile da replicare» (ivi, pp. 22-24).